Sentirsi vivi. Il potenziale performativo della curatela

by Florian Malzacher

In: Performance e Curatela. Ed. Piersandra di Matteo. Roma: Luca Sossella Editore, 2021. 47-63.


La nozione di curatela approda nel campo delle arti performative insieme alla consapevolezza che programmare performance, spettacoli di teatro, danza o musica debba andare oltre la semplice scelta o produzione di spettacoli inscritti in una precisa finestra temporale e in uno spazio deputato. Si definisce con la necessità di mettere le opere in un contesto più ampio, tale da farle interagire fra loro e con il mondo che le informa. Si tratta inoltre di creare le condizioni per un’esperienza collettiva, non soltanto nel tempo della performance, quanto piuttosto di trasformare un programma, un festival, un evento o un luogo, in un campo di comunicazione e condivisione.

Sebbene il concetto di curatela sia più articolato nelle arti visive che non nelle arti performative, la relazione esistente fra i due ambiti è più vicina di quello che solitamente di crede. Non è una coincidenza se Harald Szeemann, sotto molti aspetti il prototipo di curatore contemporaneo, abbia paragonato il proprio lavoro a quello del regista teatrale, come non lo è il fatto che la teorica dell’arte Beatrice von Bismarck metta in luce un’affinità fra i compiti dell’ideatore di una mostra e quelli del drammaturgo.

Tuttavia se prendiamo seriamente l’idea di Szeemann di “mettere in scena” una mostra, siamo portati a fare un passo ulteriore: questa affermazione solleva una questione che non riguarda soltanto il modo in cui la curatela spesso prende a prestito – il più delle volte inconsapevolmente – gli strumenti del teatro, della performance e della coreografia, quanto piuttosto il fatto che potrebbe mettere a frutto queste pratiche se ne venissero integrate consciamente le tecniche e le strategie, concependo la curatela stessa come performativa.

Performare il performativo

La fortuna – talvolta insistita – del concetto di “performativo” prende avvio con la Teoria degli atti linguistici, introdotta da John L. Austin nel suo ciclo di lezioni intitolato Come fare cose con le parole (1955)1. Antesignana dell’idea di performatività, si riferisce a pronunce verbali che esercitano la capacità trasformativa di un atto capace di costituire o modificare la realtà. Il discorso di Austin riguarda soprattutto la linguistica, ma nei primi anni Novanta divenne la base per l’interpretazione radicale proposta da Judith Butler, secondo cui il genere va inteso come qualcosa di performato e costruito attraverso le parole e l’azione fisica: la realtà è qui un costrutto sociale che viene a esistere in un gioco perpetuo di ripetizioni e citazioni. La performatività è per Butler, stando all’espressione usata in Corpi che contano, “il potere reiterativo che il discorso ha di produrre fenomeni che regola e contiene”2.

Le definizioni di performatività abbondano, spesso contraddicendosi ed essendo generalmente piuttosto vaghe, ma la maggior parte condivide la convinzione costruttivista che non esistono concetti fissi di oggettività, realtà o verità e che tutto è frutto di una costruzione individuale, influenzata dal contesto e dall’interazione.

  1. Cfr. J.L. Austin, How to Do Things with Words: The William James Lectures Delivered at Harvard University in 1955, a cura di J.O. Urmson, G J. Warnock, Oxford University Press, 1962 II ed. riveduta a cura di J.O. Urmson e M. Sbisà, 1975; trad. it. a cura di C. Penco e M. Sbisà, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987.
  2. J. Butler, Bodies That Matter: On the Discursive Limits of Sex, Routledge, New York 1993; trad. it. di S. Capelli, Corpi che contano. I limiti discorsivi del “Sesso”, La Feltrinelli, Milano 1996, p. X.

Dopo il contributo della linguistica, sono stati l’etnografia e l’antropologia a dare un impulso rilevante agli Studi teatrali e performativi: il termine “performance culturale” venne introdotto nel 1959 da Milton Singer nel suo libro Traditional India: Structure and Change3. Singer crede che in molte culture la performance, intesa come un insieme di danza, teatro e rito – definita da una propria drammaturgia, dalla separazione fra performer e pubblico, da un determinato tempo, un motivo specifico, un luogo –, offra rassicurazioni alle persone rispetto alle proprie tradizioni e identità. L’antropologo Victor Turner continua a sviluppare il concetto di performance culturale, in seguito ripreso da artisti e teorici, fra i quali Richard Schechner, il quale collabora con Turner, applicando le sue scoperte al teatro e spingendole ancora più in là4. Per quanto questi approcci differiscano fra di loro, tutte queste accezioni del performativo mettono in risalto, ognuno a suo modo, la sua “capacità di creare realtà”5 (reality-making capacity) per dirla con Shannon Jackson. Fra le varie accezioni della parola “performativo” vi è tuttavia un altro filone, altrettanto vago, persino colloquiale, che descrive le opere d’arte “simili al teatro senza essere teatro” (theatre-like but not theatre), e che ha come scopo primario quello di “raggruppare sotto un’etichetta comune recenti lavori interdisciplinari riguardanti il tempo, lo spazio, i corpi e la dimensione relazionale”6. Jackson lo definisce “uso intermediale del lessico performativo” che spesso “mette in primo piano la relazione, talvolta produttiva e talvolta scomoda, tra le arti performative e le arti visive”7.

Tornando a Szeemann, è la nozione stessa di “simili al teatro senza essere teatro” – sebbene scartata perché troppo letterale –, ad aprire un vasta gamma di possibilità se applicata a processi e prodotti della curatela: come può la nostra comprensione della drammaturgia, della gestione del tempo, della narrazione, del processo, dell’uso dello spazio, della co-presenza del pubblico, dei ruoli messi in gioco – buona parte dei quali già evidenziati nella definizione singeriana di “performance culturale” – informare il lavoro curatoriale?

A mio avviso, il potenziale curatoriale del performativo non risiede nella separazione di questi due filoni ma nel considerarli insieme e dunque nel trattarli come due facce diverse di uno stesso approccio: adattare strategie e tecniche “simili al teatro” permette la cura di situazioni capaci di “creare realtà”, che non si limitano a descriverla ma alimentano una consapevolezza della propria realtà. Nel porre l’accento non tanto sul prodotto o sul risultato – come fa ancora l’atto linguistico di Austin – ma sul proprio divenire, la curatela performativa mette in luce la dimensione live, la compresenza di tutti i partecipanti, la comunità (temporanea), tutti aspetti che stanno al cuore della maggior parte delle definizioni del teatro e della performance.

  1. M. Singer, Traditional India: Structure and Change, American Folklore Society, Cambridge 1959.
  2. V. Turner, From Ritual to Theatre: The Human Seriousness of Play, PAJ Publications, New York 1982; trad. it. di P. Capriolo, Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna 1986.
  3. S. Jackson, “Performative Curating Performs”, in F. Malzacher, J. Warsza, Empty Stages, Crowded Flats. Performativity as Curatorial Strategy, Alexander Verlag, Berlin 2019, p. 18.
  4. Ivi, p. 25.
  5. Ibidem.

Dal punto di vista della prassi curatoriale è quantomeno ingiustificato limitare o separare le concezioni linguistiche, antropologiche o filosofiche del performativo (“creazione di realtà”) da quella letterale del “simile al teatro”. Al contrario di Dorothea von Hantelmann, che in The Experiential Turn8 (2014) liquida quest’ultima definizione alla stregua di un semplice “fraintendimento”, vorrei insistere sul nesso con gli strumenti delle live arts. Ciò non soltanto perché Austin, Singer, Turner e Butler si riferiscono dichiaratamente al teatro nei loro scritti, ma anche perché il loro discorso è citato, a sua volta, da chi lavora in teatro e nel campo della performance, avendo inciso sulle pratiche artistiche. Si potrebbe dire che nel performare il performativo, è stata creata una nuova realtà fatta di performance performative.

Il teatro è sempre stato una forma d’arte sociale e auto-riflessiva, sebbene gli approcci tradizionali abbiano cercato di trascurarlo. Il teatro è una macchina paradossale che permette di osservarci mentre partecipiamo alla performance. Non crea un fuori artificiale da cui esercitare uno sguardo puramente critico, ma neppure è in grado di farci scivolare in un’identificazione immersiva (seppure talvolta tenti di farlo). Il teatro marca uno spazio in cui le cose sono reali e irreali nello stesso tempo, crea situazioni e pratiche insieme simboliche e reali. Un pensiero curatoriale che fa uso consapevole di questo fatto sottolinea gli aspetti relazionali e mette in luce le implicazioni sociali e politiche: detto altrimenti, crea spazi di negoziazione.

  1. D. von Hantelmann, “The Experiential Turn”, in E. Carpenter (a cura di): On Performativity, “Living Collections Catalogue”, Vol.1, Walker Art Center Minneapolis, 2014, https://walkerart.org/collections/
    publications/performativity/
    experiential-turn/

La prossimità al teatro può essere riconosciuta anche nella concezione stessa della curatela, ad esempio quando la teorica Irit Rogoff, nella conversazione con Beatrice von Bismarck pubblicata in Cultures of the Curatorial9, si domanda «come dare luogo [alla curatela] in quanto processo, come impedire che le cose si irrigidiscano e come creare una piattaforma pubblica che permetta alle persone di partecipare a questi processi»10. La curatela è per Bismarck un «campo dinamico»11 fatto di liveness, trasformazione ed effimero.

La paura – che l’opera possa sembrare troppo compiuta, troppo simile a un prodotto conchiuso – è parte integrante di tutte le arti dal vivo, in cui la possibilità ineliminabile del fallimento, del caso, degli errori e della perdita di controllo viene vista non come un difetto inevitabile ma come il cuore del medium. Anziché ignorare questi ostacoli, accoglierli appieno può essere una precisa strategia curatoriale per creare una tensione che enfatizza la dimensione live, inerente peraltro al teatro di repertorio, alle compagnie di danza o agli ensemble musicali più convenzionali. Espandere, accorciare, interrompere o variare il tempo – e quindi esercitare la forza fisica o mentale, l’esaurimento, la noia o l’entusiasmo del corpo collettivo degli spettatori – può generare forme di consapevolezza, oltre a creare specifiche densità spaziali. Un’altra opzione sta nell’inventare drammaturgie inedite o nel giocare con il potenziale e i limiti delle narrazioni o delle partiture, o ancora mettere a confronto opere che, a prima vista, sembrerebbero incompatibili così da generare nuova tensione o un’apertura imprevista della loro frizione. La lista può essere estesa e le possibilità vaste. Molti esempi concreti – realizzati da curatori ma anche da artisti, drammaturghi e attivisti – consentono di comprendere appieno l’importanza della dimensione performativa della curatela qualora si ponga l’accento sul qui e ora. Nel migliore dei casi, ciò crea una realtà temporanea – particolare ma porosa – che mette in connessione altre realtà, permettendo così alle opere d’arte di essere esperite non in quanto entità autonome, ma a partire dalla loro natura ed esistenza in relazione con le altre.

  1. I. Rogoff, B. von Bismarck, “Curating/Curatorial”, in B. von Bismarck, J. Schafaff, T. Weski (a cura di), Cultures of the Curatorial, Sternberg Press, Berlino 2012, pp. 21-40.
  2. Ivi, p. 23.
  3. Ivi, p. 24.